Prefazione
Alcune note fonetiche ed ortografiche
Il Romagnolo è una lingua parlata e si è tramandata oralmente attraverso le
generazioni.
Non esiste una tradizione scritta che abbia fissato pronuncia e ortografia in modo
univoco. Diverse parole differiscono, di poco o di molto, da un paese all’altro, a volte
da una famiglia all’altra, ad esempio nell’uso delle dentali t e d, o
delle labiali p e b. Succede così che si pronuncia sia minud che minut
(minuto) e bchér e pchér (beccaio, macellaio), spesso senza rendersi
conto della differenza. Il problema nasce solo al momento di scrivere.
D’altra parte esso non è risolvibile confrontando la parola in questione con la
corrispondente italiana, quando esiste: il Romagnolo nasce direttamente dal latino e
spesso un confronto con altre lingue neolatine è più utile. Ad esempio il romagnolo salut
(salute o saluto), in cui, almeno da parte mia, non ci sono dubbi sulla dentale da usare,
in spagnolo è salud (salute) o saludo (saluto): la dentale è cambiata
(latino: salus- salutis).
Altro esempio di cambio della dentale: pudê (potare), spagnolo podar
(latino putare o amputare), o mudê (mutare), spagnolo mudar
( latino mutare ).
Non esistendo una tradizione scritta, penso che non esistano regole per privilegiare
una forma rispetto ad un’altra, quando ne esistano più di una: spesso il motivo del
cambiamento del suono di una parola ha motivazioni eufoniche e dunque l’unica regola da
seguire penso che sia di tipo eufonico. Se in qualche zona risulta più facile pronunciare
pchér che bchér (più vicino a beccajo), penso che si debbano
ammettere tutte due le forme, così come a m’ arculd e a m’arcurd ( mi
ricordo), in cui lo scambio delle liquide (la seconda r con la l) a mio
parere facilita la pronuncia.
Altre variazioni con motivazione eufonica che mi vengono in mente, passando direttamente
agli esempi: a j ò pinsê (io ci ho pensato), nella forma negativa a n j ò
pinsê (io non ci ho pensato) è di difficile pronuncia, basta leggerlo in fretta
alcune volte e viene naturale dire a n gn ò pinsê.
E poi: ësar, rësar, rësr (essere), secondo i casi…..
E che dire delle variazioni, piccole o grandi, delle parole fra paesi, anche vicini?
Qualche tempo fa un mio cugino di Cotignola (Cugnôla o Cudgnôla?), a meno
di dieci chilometri verso sud, mi ha sorpreso dicendo che gli era caduto un pè,
che per noi, almeno a Masiera di Bagnacavallo, Fusignano e zone limitrofe, significa piede.
Dopo un attimo di perplessità, visto che stava osservando il pino che è nel mio
giardino, ho capito che non si trattava di una delle sue estremità, colpita da qualche
rara malattia, ma di una conifera, che noi chiamiamo pen (con e nasale e n
muta).
Meno di dieci chilometri nell’altra direzione, ad Alfonsine, il nostro râgn
(ragno) diventa règn. E così via.
Un altro problema è quello della rappresentazione grafica dei diversi suoni.
Senza voler entrare troppo a fondo in una materia complessa, che autorevoli studiosi hanno
affrontato, senza però giungere ad una, d’altra parte auspicabile, soluzione uniforme,
tuttavia mi sembra utile per chi legge illustrare alcune regole che ho seguito e alle
quali non mancano le eccezioni e le incongruenze, risolvibili "ad sensum",
supponendo che chi legge non sia digiuno delle nostre parlate e sappia quando leggere e’
cân (il cane) e al cân (le canne), anche se scritte nello stesso modo.
Sarebbe opportuno trovare un altro modo per risolvere simili incertezze, eventualmente con
l’adozione di segni grafici da sovrapporre, anteporre, sottoporre o posporre a vocali e
a consonanti? Ai posteri ( e soprattutto agli esperti) l’ardua sentenza; nui… possiamo
solo notare che un proliferare di segni non faciliterebbe la lettura a un lettore
occasionale, e che d’altra parte anche altre lingue, prima di tutte l’inglese, hanno
vocali e/o consonanti che si leggono in modo diverso in diverse parole e occasioni, per
cui solo l’uso e la conoscenza della lingua e delle relative eccezioni possono essere di
guida.
I criteri a cui mi sono attenuto, che cercherò di illustrare sommariamente in seguito,
esclusivamente allo scopo pratico di agevolare la lettura, si basano sulla
scrittura della lingua romagnola dell’amico e studioso illustre Dott. Giuseppe Bellosi,
(che ringrazio per i suggerimenti ortografici, senza voler con questo impegnarne
l'autorità, sia per qualche punto in cui mi sono discostato dal suo parere, sia
soprattutto per i numerosi errori che non mancheranno in queste pagine), che coincide in
pratica con le indicazioni
date dall'Istituto Friedrich Schürr
per la tutela del dialetto romagnolo.
Prima di tutto ho assunto che tutte le parole romagnole che terminano con una
consonante siano tronche (effettivamente sono la stragrande maggioranza): le piane
necessitano di un accento. Così non metto accenti, a meno che non serva per modificare il
suono della vocale, in cunfusion (confusione), camarir (cameriere), rumagnôl
(romagnolo), ma lo metto in quàtar (quattro), sèmpar (sempre), stòpid
(stupido).
Le parole che terminano con una vocale sono piane: cardenza (credenza), vinaza
(vinaccia), stala (stalla) e non necessitano di accento, a meno che non serva per
modificare il suono della vocale, come in scarâna (sedia), butéga
(bottega), rôda (ruota) ecc.
Metto invece l’accento se sono tronche, come in italiano: zitê (città), finì
(finire o finito).
Nel romagnolo esiste un suono particolare, detto nasale, che si ha con le vocali a, e,
o in unione con le consonanti m, n o i gruppi di consonanti gn, mp,
in modo simile, anche se non uguale, a quanto avviene nel francese –en: rien
(niente), parent (genitore), mentre il suono –on del francese: saucisson
(salame), prison (prigione) è praticamente uguale a quello del romagnolo parson
(prigione), ucasion (occasione).
Le vocali a, e, o assumono suono nasale, quando su di esse cade l’accento
tonico (quindi in sillaba finale per parole tronche e in penultima per quelle piane).
In tali casi la n è normalmente muta, se seguita da alcune consonanti o se in
fine di parola, mentre si pronuncia quando è seguita da vocale, quindi nei plurali
(con desinenze –ân, -en, -on) delle parole che al singolare hanno la desinenza
in –âna, -ena, -ona. Per distinguere il suono nasale della a, essa si
rappresenta con accento circonflesso â, mentre per la e e la o non
si usa nessun segno particolare, basta la consonante che la segue a far capire il suono.
Ma esaminiamo singolarmente le tre vocali.
Cominciando con la vocale a, quando assume una pronuncia nasale (quando è
accentata ed è seguita dalle lettere n, m, gn), essa è stata rappresentata con â:
esempio e’ cân (il cane), e’ pân (il pane), la pânza (la
pancia), la bânda (la banda), la fâm (la fame), e’ salâm (il
salame), râgn (ragno), castâgn (castagno), Rumâgna (Romagna). La n,
che dà il suono nasale, è in genere muta quando è in fine di parola o seguita da
consonante c, t, s, z (brânch, elegânt, scâns, pânza, branco, elegante,
scanso, pancia), mentre si pronuncia quando è seguita dalle consonanti g, d, l (
mânga, bânda, dvânla!, manica, banda, raccoglila a gomitolo!). Non mi
vengono in mente parole in cui la n sia seguita da altre consonanti.
La gn si pronuncia (râgn, e’ mâgna, ragno, egli mangia) e anche la m
(fâm, e’ ciâma, fame, egli chiama), tranne quando è seguita da p: e’
lâmp (il lampo), e’ stâmp (lo stampo), in cui è muta. La n si
pronuncia normalmente quando è seguita dalla vocale a: la câna (la canna),
la tâna (la tana), la campâna (la campana), o dalla vocale i nei
femminili plurali degli aggettivi: esempio: strâni, sâni (strane, sane),
ecc.
Nelle stesse due parole precedenti al cân e e’ pân, che possono
significare anche rispettivamente le canne e il panno, la n va invece
pronunciata: si lascia al lettore capire dal contesto e dall’esperienza il significato e
quindi la pronuncia. Una regola che mi sembra possa valere in questo caso è che la n
si pronuncia quando nella corrispondente parola italiana c’è la doppia n (ân,
dân, pân, anno, danno, panno) o quando si tratta di femminili plurali, quindi con
desinenza al singolare –âna: al cân, al tân, al campân.
Si pronuncia la n anche nei numerali quarânta, zinquânta …… nuvânta.
Per quanto riguarda il suono nasale della e, esso si ha quando è seguita da
n o mp, come in quatren (quattrino/i), ven (vino), vent
(vento o venti), cardenza (credenza), senza (senza), dens (denso), brench
(branchi), in cui la n è normalmente muta se in fine di parola o seguita da
consonante c, t, s, z. Si pronuncia, invece, quando è seguita da vocale a,
come in tarena (terrina), galena (gallina) ecc., o i, come nei
femminili plurali degli aggettivi (es.: feni, zneni, fini, piccole, ecc.).
Si pronuncia la n nei femminili plurali, cioè nei plurali di –ena: al
taren, al galen.
Quando la n è seguita dalle consonanti d, g, l (a dmènd,
andènd, tènda, a vèngh, dmènga, sghinlê, io domando, andando, tenda, io
vango, domenica, scivolare), non solo si pronuncia, come già visto nei casi analoghi di –ân,
ma si perde anche il suono nasale della e, che si pronuncia come una è
aperta, che va accentata, quindi non c’è il problema di riconoscere questi casi.
Ci sono delle eccezioni nei casi di en seguita da t: ad esempio zènt
(cento) e i suoi composti, in cui non c’è suono nasale. Tent (tanti) si può
pronunciare, e quindi scrivere, in due modi. In certe espressioni (ad es.: i è
tènt," sono tanti") non c’è suono nasale e la n si pronuncia
(quindi metto l’accento), mentre in altre (piò tent, "più tanti",
cioè "di più" in numero, oppure nella correlazione tent …. quent,
"tanti …. quanti") il suono è nasale (almeno nel mio modo di parlare).
La stessa cosa vale per quent (quanti): mi viene da dire tot quènt (tutti
quanti), ma quent êi? (quanti sono?), e indifferentemente quent ch’ iè!,
o quènt ch’ i è! (quanti sono!). Ma penso siano abitudini, non dico a livello
di paese, ma forse solo a livello famigliare.
La m seguita da p è normalmente muta: e’ temp (il tempo), i
lemp (i lampi), a chemp (io campo).
Quando en o emp non hanno suono nasale, ma di e aperta e n o m
pronunciata, ho messo un accento grave: esempio: vèn! (vieni!), la pèna
(la penna), la matèna (la mattina), sèmpar (sempre), al pèn
(le penne), a differenza di e’ pen (il pino).
Fanno parte di questa categoria i plurali delle parole in –ân in cui la n
si pronuncia (quelle il cui corrispondente italiano ha la doppia n), come visto
prima: dân, plurale dèn (danno, danni), capân, capèn (capanno/i),
ân, èn (anno/i), ecc.
Non c’è suono nasale e si pronuncia la n, ma con la e chiusa (accento
acuto), in alcune parole di origine italiana: tréno (treno), fréno
(freno).
La vocale o assume suono nasale in unione con la n come in riunion
(riunione), ucasion (occasione), monch (monco), mont (monte), la
fronta (la fronte), e’conta (egli conta), Alfons (Alfonso), bronz
(bronzo), dove la n è in generale muta, se in fine di parola o seguita da
consonante c, t, s, z, come negli esempi. Si pronuncia quando è seguita da
vocale a: parsona (persona), lona (luna), pultrona (poltrona),
o i nei femminili plurali degli aggettivi: esempio: boni, lazaroni
(buone, lazzarone).
Si pronuncia la n anche in: al parson ( le persone, con o
nasale e n pronunciata), che è uguale come scrittura a la parson (la
prigione, con o nasale e n muta, a parte il diverso suono della s),
al pultron (le poltrone) ecc., in cui si confida nel buon senso, nel contesto e
nella pratica ( come detto per en, sono i femminili plurali in cui si pronuncia la n,
vale a dire, in questo caso, i plurali delle parole con desinenza in –ona).
Come per il caso analogo di –en, quando on è seguita dalle consonanti d,
g, l (sgònd, lòngh, cònla, secondo, lungo, culla), non solo
si pronuncia la n, ma si perde anche il suono nasale della vocale o, per cui
si mette l’accento grave sulla ò.
Eccezioni che mi vengono in mente, in cui si pronuncia la n pur non rientrando
nei casi precedenti, sono: e’ lon (il lunedì) e la prima persona singolare dei
verbi in –unê, come sangunê, abtunê, sunê, bastunê (sanguinare,
abbottonare, suonare, bastonare), ecc.: a sangon, abton, a son, a baston (io
sanguino, io abbottono, io suono, io bastono).
Si ha il suono nasale anche con omp: e’ romp (egli rompe), con m
muta, analogamente a quanto avviene con â ed e in lâmp e temp.
Per pignoleria, o nei casi di parole isolate, in cui il significato, e quindi la pronuncia
esatta, non si capisce dal contesto, ho pensato di indicare la n, quando va
pronunciata, con ń. Sono del parere che è il
caso di usarla con parsimonia, solo nei casi veramente dubbi: parson (prigione), parsoń (persone), cân (cane), câń (canne), per non complicare la scrittura. In
alcuni casi basterebbe l’articolo (e’ cân, al cân), o in altri il
contesto ad eliminare l’equivoco e a far cadere la necessità della ń, almeno per i non pignoli. Direi anche che non è
il caso di distinguere la n quando c’è un accento che ci dice che non c’è
suono nasale e dunque la n si pronuncia: vèn! e ven (vieni! e
vino), pèn e pen (penne e pino) direi che si
distinguono bene e quindi si possono leggere correttamente anche senza complicare la
scrittura.
Quanto detto per i suoni nasali vale le an, le en e le on accentate,
quindi appartenenti all’ultima sillaba per le parole tronche e alla penultima sillaba
per quelle piane (fasulen, fagiolino, canon, cannone, zonta,
aggiunta).
Hanno sempre il normale suono dell’italiano negli altri casi: esempio: cantânt
(cantante): il primo an (in questo caso si riconosce perché la a non ha l’accento
circonflesso) si legge normalmente, il secondo ha la a nasale e la n muta; sentiment
(sentimento): la prima en si legge normalmente, la seconda con e nasale e n
muta.
La descrizione dei suoni nasali qui effettuata è abbastanza esaustiva se riferita a
parole singole, ma bisogna approfondire il discorso per le parole inserite in una frase,
sia per la pronuncia, che dal punto di vista metrico.
Nel caso della n muta, essa lo è sicuramente quando la parola seguente comincia
per consonante. Quando invece comincia per vocale, è possibile pronunciare staccate le
due parole, con la conseguenza che i due suoni vocalici di ân , en, on
(in cui la n è muta) e della vocale che segue si fondono, formando una sola
sillaba agli effetti della metrica, a meno che non si pronuncino appositamente staccate
(iato): esempio: l’urtlân brêv (l’ortolano bravo): la n è sicuramente
muta; l’urtlân e’ va a e’ marchê (l’ortolano va al mercato), pronunciando
le due parole separate e unendo i suoni (elisione) il suono nasale di â e la e
formano un unico suono e dunque una sola sillaba, come in la bionda e la bruna, in
cui dae forma una sola sillaba agli effetti della metrica, a meno che non si faccia
appositamente una pausa fra le due parole. Per non effettuare l’elisione si può in
questi casi pronunciare la n, che è pur sempre presente, anche se normalmente
muta, e pronunciare l’urtlâne va…, e in questo caso le sillabe restano due. In
quest’ultimo caso, cioè quando si deve fare questa liaison fra le due parole,
pronunciando la n, ho sempre messo un apostrofo: l’urtlân’ e’ va ….
Stesso discorso per en e on: e’ ven biânch (il vino bianco) e e’
ven amêr (il vino amaro), i bragon curt (i calzoni corti), i bragon a la
zuava ( i calzoni alla zuava), in cui metto l’apostrofo se voglio pronunciare la n
unendola alla vocale successiva: e’ ven’amêr, i bragon’a la zuava.
Altri suoni della e sono: e aperto, che a volte ho scritto con
accento grave (è), a volte non accentato (stèch, schegia, lègna, busèia,
stecco, scheggia, legna, bugia); la e chiusa, scritta con accento acuto (é),
spesso dimenticato, quando il suono è uguale alla parola italiana: ad esempio séra,
péra ecc.; la e di anël (anello) o di lët (letto), scritto
con la dieresi, e infine la e di lunêri (lunario), zitê (città), andê
(andare, andato) con accento circonflesso.
A proposito di andê (andare) e di tutti i verbi all’infinito: finì
(finire), bé (bere), essi hanno una r muta che non viene scritta, se non
quando si legano alla parola successiva che inizia per vocale, se si vuole evitare l’elisione
metrica: in questo caso ho evidenziato la r e messo un apostrofo, in modo analogo a
quanto detto a proposito di ân e en. Esempio: andê luntân, andê a ca,
andêr’ a ca (andare lontano, andare a casa). Forse sarebbe il caso di mettere
sempre la r finale, convenendo di non pronunciarla, come nel francese e in analogia
con ân e en? In questo modo si distinguerebbe anche l’infinito dal
participio passato, che altrimenti si scrivono e si pronunciano allo stesso modo (andê:
andare e andato, finì: finire e finito).
Oltre quello nasale già visto, un altro suono della o è quello aperto con accento
grave (ò) o nessun accento: spògna, foja, zola (spugna, foglia, cipolla);
quello chiuso sempre con accento acuto: amór, sgnóra, lóv (amore, signora,
goloso), vó, ló (voi, loro).
A questo proposito mi sembra giusto scrivere non (noi) e non nó, come altri
scrivono, anche se convengo che non non è bello da vedere, abituati come siamo in
italiano a dargli il senso della negazione. Infatti il suono di non (noi) è quello
nasale di canon (almeno nel dialetto di casa mia, che suppongo arrivi almeno fino a
Bagnacavallo, Fusignano, Lugo), con suono nasale e n muta, e non chiuso di vó
(voi), ló (loro), amór (amore), confortato in questo anche dal fatto che
in qualche altro dialetto la n è ben presente e si pronuncia. Da una
piccola inchiesta da me svolta è risultato che in milanese noi si dice nun, ad
Argenta (FE), più vicina a noi, si dice nón (con ó chiusa e n
pronunciata), a Cesena non (anche qui con n pronunciata) e mi è stato
assicurato che anche da qualche parte del ravennate si dice non con n
pronunciata. In altre zone del ravennate pronunciano nó, ma coerentemente anche ucasió
e situazió.
Un altro suono della o è quello di pröpi (proprio), fagöt
(fagotto), öt (otto), scritto con la dieresi.
Infine c’è il suono di fiôl (figlio), nôv (nuovo oppure nove), stôrt
(storto), prôva (prova), con accento circonflesso.
La e puo’ essere articolo (il) o pronome (egli): in questi casi lo scrivo con
apostrofo (e’gat, il gatto, e’ mâgna, egli mangia); può essere
congiunzione, in tal caso e; può essere verbo (l’è, egli è), in tal
caso è con accento grave. T’é (tu hai) ha accento acuto.
A e o hanno l’accento quando sono voci del verbo avé (avere): a
j ò, l’à (io ho, egli ha).
Ho accentato la voce verbale a sò (io so o io sono) per distinguerlo da so
(su); dì (dire) per distinguerlo da di (dei, preposizione articolata), e
altri casi simili in cui un verbo si potrebbe confondere con qualcos’altro.
Discorso a parte meritano le consonanti: la s e la z
hanno suoni diversi, più dolce o più duro, come d’altra parte anche in italiano. Ad
esempio vantaz (vantaggio) o viaz (viaggio) hanno la z dolce dell’italiano
zanzara, mentre sdaz (setaccio), giaz (ghiaccio), zèndar
(cenere), zöch (ceppo) hanno la z più dura come nell’italiano pazzo,
o nel tedesco zug (treno). La parola maz (mazzo) e Maz (Maggio) si
scrivono allo stesso modo, la prima si legge con la z dura, la seconda con la z
dolce. Così anche per la s: pès (pesce) e pés (peso), hanno la
prima la s dura e la seconda dolce delle rispettive parole italiane. Esistono segni
per distinguere questi suoni, ma, nello spirito della semplificazione suaccennato, ho
ritenuto di affidare la corretta pronuncia al buon senso e alla pratica d’uso del
lettore, tranne nei casi veramente dubbi : péş
(peso), pès (pesce), maż (maggio), maz
(mazzo o mazza), parşon (prigione), parsoń (persone).
Per quanto riguarda la c e la g in fine di parola, esse possono avere il
suono dolce di cera e giallo e in tal caso si possono scrivere semplicemente
con c e g come in öc (occhio), curnec (baccello) e sveg
(sveglio), curag (coraggio), mentre se hanno il suono duro di corallo, chiesa,
gatto, ghiotto prendono la h come in nench (anche), cusach
(marrone), a végh (io vado), a vègh (io vedo), a dègh (io dico), zöch
(ceppo).
E poi c’è il suono tutto romagnolo, a quanto ne so, della sc da pronunciare
separatamente e non come nell’italiano pesce o sciarpa: esempio s-ciuptê
(schioppettata), fes-c (fischio): qualcuno risolve il problema separando la s e
la c con un trattino. Un modo per eliminare la scrittura, non bella, col trattino,
e nello stesso tempo di chiarire meglio i suoni della c e della g finali di
parola, che non tutti sanno come leggere, proporrei di usare in questi casi i segni
grafici adatti č e ğ: sčiuptę, fesč,
öč, curneč, curağ. Cade in questo modo la necessità di mettere la h
dopo le c e le g finali di parola da pronunciare col suono duro: nench,
zöch, cusach, a végh si potrebbero scrivere nenc, zöc, cusac, a vég, forme
più semplici e naturali per chi scrive e/o legge in modo spontaneo. Tuttavia, per
mantenere la compatibilità col modo diffuso di scrivere con la h, ho mantenuto
questa scrittura e, anche se ridondante, ho precisato le c e le g dolci con č e ğ: öč (occhio), curneč
(baccello) e sveğ (sveglio), curağ (coraggio).
C’è poi la questione della sc, che qualcuno sostiene non esista in romagnolo, ma
che il suono sia quello della semplice s, e probabilmente ha ragione: non c’è
alcuna difficoltà, per un romagnolo, a pronunciare cusienza, siala, insimunì
(coscienza, sciarpa, scimunito), anche senza la sc, e mi sono comportato di
conseguenza.
Qualcuno sostiene anche che in romagnolo non esiste la qu, ma che si pronuncia e
scrive cv: cvêdar e non quêdar (quadro), cvest e non quest
(questo) e probabilmente ha anche ragione, ma questa volta non mi sento di seguire questa
scrittura da puristi: ormai, da romagnoli non madrelingua come una volta (e ce ne fossero!
Ormai i giovani non lo parlano proprio!), quasi tutti pronunciano la qu.
Tutto chiaro? Sembra! Esempio: sentum ben! (sentimi bene!), o zentar
(centro), o contar (contro): se non metto l’accento sulla e o sulla o,
le parole andrebbero pronunciate tronche, in ossequio alla regola generale (terminando per
consonante), come che fossero sentùm , zentàr , contàr; se, d’altra
parte, per avere una pronuncia corretta, metto l’accento sulla e o sulla o (sèntum
, zèntar , còntar), in ossequio all’altra regola a cui mi sono attenuto
si perde il suono nasale che deve avere in questo caso la en e la on. Le due
regole in questi casi sono in contrasto. Non sempre si ha la fortuna, come in sèmpar
(sempre), o vènar (venerdì), in cui l’accento serve sia perché la parola è
piana, pur terminando per consonante, sia perché la emp o la en non hanno
suono nasale come in temp o vent. Come risolvere problemi di questo tipo?
Non lo so! Io non ho messo accenti e ho confidato nel buon senso del lettore.
E se devo scrivere êlbar (albero), o un'altra parola con accento sulla vocale a
inizio di parola, e mi trovo a inizio di riga o comunque mi devo servire della lettera
maiuscola ( Elbar), come la mettiamo con l’accento? E’ ovvio: non lo mettiamo,
perché nei set di caratteri non esistono in genere le maiuscole accentate. Anche in
questo caso sono l’esperienza e il contesto a salvare la situazione ( se consideriamo
che Elbar può stare per êlbar ,albero, ma anche per élbar, alberi).
D’altra parte anche il francese, ricco di accenti, non li usa con le maiuscole.
Altro esempio: non a fasen o solo a fasen, vó a fasì o a
fasì (noi facciamo, voi fate), ma non anden, o anden, vó andì
o solo andì (noi andiamo, voi andate): il pronome personale nella sua forma debole
a ( che sta per io, noi, voi: a fëgh, a fasen, a fasì), sempre
obbligatorio in romagnolo ( a differenza della forma forte me, non, vó), sparisce
se il verbo inizia per vocale. O no?
E: me a fëgh (io faccio), me a l fëgh (io lo faccio): "lo" è
"l". Ma alla seconda persona te t fé (tu fai), è impossibile
pronunciare te t l fé (tu lo fai), sono costretto ad inserire una a
eufonica, ma dove la attacco (te t’ al fé, te ta l fé) o non la attacco affatto
(te t’ a l fé)?
Ed è meglio chiudere qui il discorso, perché, a pensarci, di casi particolari,
eccezioni, incertezze ne salterebbero fuori a bizzeffe e invece di semplificare la
lettura, che è lo scopo di queste note, si finirebbe per creare dubbi e complicarla.
Se pu u j è nench un quelch erór, a n stasen a ciapê i spen par la ponta: l’impurtânt
l’è ch’ u s capèsa e’ sens de scórs!
Traduzione
Ogni poesia è corredata di traduzione in Italiano. La traduzione è il più possibile
letterale e non ha certo pretese artistiche, anzi la sintassi è spesso sacrificata alla
fedeltà ad un linguaggio che, anche se scritto, è essenzialmente parlato.
Spesso sono presenti anche delle note esplicative su alcuni termini meno comuni che, se
saranno inutili per lettori romagnoli, potranno essere di qualche utilità per altri, se
mai ce ne saranno!
Metrica
Le poesie sono tutte in ottonari, raggruppati o no in vari tipi di strofe e con vari
tipi di rima (baciata, alternata, incatenata), oppure in endecasillabi, in questo caso
quasi sempre sotto forma di sonetto.
|